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Le Silenziose Avanguardie

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2001-11-01

13:50:08

INQUIETANTI SORTILEGI
Enrico Prometti denuncia con totem tecnologici, anatomie visionarie e antropozoomorfiche un mondo alla deriva

La storia di Enrico Prometti inizia con la classica scoperta del maestro, il pittore Daniele Marchetti, insegnante di Storia dell'Arte, che vede casualmente i disegni del ragazzo che tappezzano la bottega di ciabattino del padre,e quindi convince lo stesso ad iscrivere il figlio alla Scuola dell'Accademia Carrara, dove il giovane studiò con profitto dal 1959 al 1965, perfezionando la sua innata manualità con la frequentazione di alcune botteghe d'arte ancora esistenti nella città.


Negli ultimi saggi scolastici, l'allievo, pur mantenendosi coerente agli indirizzi della scuola, dimostrò di aver assimilato i diversi linguaggi dell'arte contemporanea, nell'epoca in cui il verismo lombardo e la natura morta erano ancora i temi dominanti della cultura locale; tuttavia, alla mostra organizzata nel 1966 dal Comune di Bergamo, riservata ai giovani residenti, di età fra i 18 e 25 anni, in cui furono premiate le due nature morte di Claudio Spini e di Roberto Patelli, la giuria premiò anche l'opera dissacratoria di forte impronta surrealista di Enrico Prometti.
Egli infatti era già determinato a navigare controcorrente, ponendosi criticamente anche nei confronti delle avanguardie milanesi e delle suggestioni di linguaggi allora emergenti, come il nuovorealismo, la pop art e l'arte programmata, con un'attenzione quasi profetica alla rivalutazione dell'opera pittorica come contenuto e riflesso di angosce e speranze.
La sua vitalità dirompente rivisitava in chiave ironica e liberatoria gli stilemi di maestri come Max Ernst, Klee, Mirò, Brauner, in articolate composizioni che non passarono inosservate negli ambienti milanesi più qualificati, come la Galleria "L'Agrifoglio", in cui partecipò ad una collettiva e poi espose in una personale nel 1967, prima di intervenire al Premio S. Fedele del 1969, con un'opera definita da Tommaso Trini "di un formalismo eclettico".


L'impulso di contaminare e manipolare i vari linguaggi, che da sempre costituisce il filo conduttore del suo operare, nasce in realtà da una insaziabile curiosità, che lo spinge nel 1973 ad attraversare il deserto del Sahara, alla ricerca di mondi lontani, di una genuinità perduta, lasciandosi attrarre da quel magnetismo dell'assenza, che solitamente viene definito "mal d'Africa ".
Nel familiarizzare con i beduini, ritrovò in loro quella manualità a lui tanto cara e congeniale, con cui essi sopperivano ad ogni necessità, affascinato dalla semplicità di quei gesti, con cui all'occorrenza essi sfilavano dalle bisacce minuscoli oggetti, veri gioielli di ingegnosità artigianale, che con piccole trasformazioni permettevano di assolvere alle più diverse funzioni. In quei luoghi tutto era considerato sotto una luce diversa, ogni cosa era valorizzata nella sua potenza creativa, nulla andava perduto, addirittura quegli stessi oggetti ed ornamenti che nei cerimoniali rispondevano ad istanze sacrali per esorcizzare gli spiriti maligni, venivano poi riutilizzati nel ciclo della sopravvivenza.
AI suo ritorno in patria, Prometti aveva ormai acquisito un nuovo approccio con la materia, non più vista come elemento di consumo sconsiderato, ma come fonte primaria di creazione, origine e strumento di rappresentazione e di funzione. Cominciò ad accumulare nello studio ogni sorta di oggetti di recupero, reliquie che sentiva ancora miracolosamente vive, e con meticolosa perizia e inesauribile fantasia iniziò ad assemblare e scomporre, a regalare nuova dignità a oggetti e materiali in disuso, in parallelo con le avanguardie che con grande clamore trasformarono relitti in icone, sublimandoli in oggetti estetici.

Prometti però non si riteneva soddisfatto del solo recupero estetico, ma per concentrarsi maggiormente sulla potenzialità generatrice della materia riparti per nuovi viaggi, quasi a voler risalire a ritroso fino alle origini della creatività umana.
Dalle terre incolte del Niger alla Papuasia, dall'Indonesia al Mali, Enrico Prometti approfondì le sue conoscenze ed affinò la sua sensibilità verso i misteri di civiltà incontaminate, che oggi traspaiono da alcune sue opere inquietanti, come simboli di itinerari sotterranei della memoria alla ricerca di un mondo perduto.
Dopo le sue ultime mostre personali tenute nel 1996 a New York, e l'istallazione per la mostra celebrativa dell'Accademia Carrara a Bergamo, nella più recente del 1999 alla sala espositiva "Virgilio Carbonari" di Seriate, egli progetta anche uno spazio inusuale, creando un ambiente eterogeneo e suggestivo, in cui le sue opere, da lui definite "Altari degli istanti inafferrabili", diventano tutt'uno con una scenografia fantasmagorica.
Gli stessi titoli di quelle opere sintetizzano quei processi di aggregazione o associazione che le hanno ispirate, come: Il vecchio e il mare, Testamento di Epicuro, Vegetale giubilante, Senegalese alla Dalmine, Spaventa Pavoni, Flusso cromatico, Madonna della grande mela, ecc.
Certamente l'opera più inquietante per l'allusiva e drammatica espressività è la "Madonna della grande mela", una scultura satura di materiali di recupero ispirata alla Statua della Libertà di New York, vista come una partoriente che schiaccia il nascituro.
Nelle opere di scultura infatti Prometti raggiunge la più completa esuberanza espressiva, focalizzando l'essenzialità della sua denuncia sia con anatomie visionarie, che con soluzioni antropozoomorfiche o con parallelepipedi configuranti totem tecnologici, che trasudano dagli stessi materiali di recupero con cui sono assemblati le gravide emozioni di un mondo alla deriva.

Pino Viscusi

 

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