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Prometti, artista a tutto tondo innamorato del deserto

di Giuseppe Fumagalli.

Sarà il tempo a dare la giusta dimensione, la giusta posizione e il giusto valore di Enrico Prometti.

Ma davanti a quarant'anni di lavoro ininterrotti dalla perentorietà di un gesto estremo, una cosa di lui è già possibile dirla.

Prometti è stato artista nel senso più completo del termine.

Aveva cuore e cervello. E tutta la profondità del suo pensiero, tutta l'intensità del suo sentimento hanno potuto esprimersi ed imprimersi sulla materia attraverso il segno unico e inconfondibile di due mani magiche. La creatività di Prometti è stata assistita da un'abilità tecnica fuori dall'ordinario.

Prometti è stato in grado di esprimersi attraverso ogni genere di materiale e di linguaggio, e con la massima libertà ha spaziato dalla pittura alla scultura, dalla fusione in bronzo alla forgiatura del ferro, dalla gioielleria alla trasformazione dei più banali oggetti di uso quotidiano. Ha avuto tutto. Tranne una cosa. La fama.

In un mondo che fa del successo un metro universale di giudizio, pochi hanno potuto accorgersi di Prometti. Anche a Bergamo, dove ha vissuto una vita intera, molti potrebbero non averlo mai sentito nominare. Ed è un peccato.

Non tanto per lui che mai ha mosso un dito per cercare il successo, ma per tutti quelli che, sprovvisti di indizi, hanno perso l'occasione per avvicinare un uomo d'eccezione. Custodita dal figlio Vania e da pochi amici collezionisti rimane la sua opera. E da quella si dovrà partire per ricostruire una storia iniziata negli anni 60 ai corsi dell'accademia Carrara, sotto la guida di Trento Longaretti.

Prometti cercò il suo linguaggio e lo trovò nelle correnti dell'astrattismo.

È un termine che potrebbe trarre in inganno. Perché di astratto nella sua produzione non c'è mai stato niente. Non è mai stato un animale da salotto o vernissage e i suoi studi, più che ovattati atelier, sembravano laboratori pieni di polvere e rumore.

Aveva mani grandi e dure da lavoratore e quando si confrontava coi materiali più aspri e duri non rinunciava a una certa dose di aggressività, al gusto michelangiolesco della sfida. Al di fuori dell'officina non aveva altri recapiti. Se non era lì era in giro.

Ha vissuto allo stato brado nei boschi, nelle pietraie di montagna, sulle spiagge della Sardegna o nell'immensità dei deserti africani e lì nella più completa solitudine ha esplorato la galleria infinita di forme e materiali generati dalla natura.

Era come un pesce che risale la corrente per tornare alle proprie origini. Si convinse di averle trovate a fine Anni 70 in Africa.

Al termine di un lungo viaggio attraverso il Sahara approdò in Mali e fermò la Land Rover ai piedi della spettacolare falesia di Bandiagara, dove vive il leggendario popolo dei Dogon, Raccolse i loro oggetti in legno, ferro e bronzo e li studiò.

È un lavoro che prima di lui avevano fatto le avanguardie artistiche di inizio '900. Ma Picasso e compagni si erano fermati all'aspetto formale di maschere e statue. Prometti ha cercato di coglierne la dimensione spirituale e per impossessarsi del segreto delle loro forme, delle loro proporzioni, della superficie scabra delle loro patine è arrivato addirittura a riprodurli.

Chissà, forse in quelle opere d'arte, create da artisti senza nome per dare risposta a una insopprimibile volontà di assoluto, Enrico ha visto un riflesso di sé stesso. 

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