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Un artista "primitivo" contemporaneo di Marco Madesani

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2012-04-16

16:05:49

Capita spesso di pensare l’arte come un unicum vorticoso, una miscellanea che attraversa il tempo e lo spazio, tale da comparare le rappresentazioni più lontane sia sul versante simbolico che su quello materico. Succede così che le arti africane con il loro concentrato di soluzioni formali ed evocative siano una fonte d’ispirazione che anima i linguaggi astratti e diviene una variegata vetrina a cui attingere e con cui dialogare. Enrico Prometti incontra presto l’Africa, certo molto dopo i vari Picasso, Modì etc. ma la portata euristica di una rivoluzione culturale come questa, secondo cui il Novecento non sarebbe stato più lo stesso dopo l’incontro con le arti “altre”, rimane ancora da elaborare e valorizzare; soprattutto la rivoluzione permane ad oggi con la perpetuazione di stilemi formali che evidenziano il debito di tutte le avanguardie moderne verso l’art negre. L’incontro di Enrico con l’Africa giunge molto prima di mettere piede nel continente nero, avviene da adolescente osservando la magia di alcuni manufatti e con i primi esperimenti figurativi con il riciclaggio di materiale di scarto. E qui si pone la prima riflessione concettuale su analogie tra culture: l’occidente assorbito nel vortice della produzione estenuante e continua, non riesce più a pensare al riciclo come condizione di equilibrio per l’ecosistema, ma solo come ripresa di dejavù dettati dalla moda. La produzione di Prometti da decenni perseguiva silenziosamente questa ecologia dell’arte, il cui messaggio è oggi così attuale. Enrico amava ironicamente definirsi un vecchio che rimane giovane attraverso il gioco della creazione, ma questa attività ludico-artistica celava una dimensione antropologica della storia, una ricerca verso le origini delle forme e del fare arte. Questa indagine simbolica viveva all’unisono e si alimentava dell’interazione con le arti primitive, fonte inesauribile d’ispirazione e pratica di studio. Innumerevoli i viaggi in Africa, segnati da avventure, incontri con paesaggi, culture, colori e rumori. Tantissime le testimonianze da questo variegato mondo, inventario di umanità in trasformazione, a cavallo di un passato sofferto e un futuro globale dietro l’angolo. Tra le molte popolazioni africane, quella più frequentata da Enrico furono gli ormai più che noti Dogon, con il loro simbolismo complesso e una cosmogonia arcaica che non smette mai d’incantare. La manipolazione dei materiali (legno, ferro, plastica, bronzo, carta) forgiava continuamente forme scultoree o pittoriche che negli anni si sono evolute dal delicato surrealismo delle prime opere, all’ultimo periodo più maturo che fotografava energiche istantanee tribal-metropolitane. L’energia che animava Enrico Prometti non faceva distinzione alcuna, quasi che questo processo rischiasse di discriminare qualcosa, e allora l’artista o è totale o non è. La casa emanazione del sé, gli oggetti del quotidiano, la sua auto, gli sgabelli, la scatola del tabacco da pipa…Nulla veniva escluso a priori e tutto convergeva nell’epifania delle sue forme astratte e simboliche. Questa era evidentemente un’altra analogia con l’arte africana che per sua natura non risparmia nulla, anzi innalza la categoria degli oggetti d’uso a splendidi manufatti artistici. Prometti era un attento collezionista di opere africane, ma esterno al mondo dei mercanti. L’oggetto viveva in quanto raccolto in loco e frutto di quel hic et nunc dei suoi viaggi. In particolare, la sua raccolta di oggetti attinenti il culto e la cultura materiale della popolazione Dogon era senza dubbio notevole. Il viaggio pertanto diveniva esperienza culturale, antropologica e artistica e queste tre dimensioni rimanevano indissolubili. Sensibilità d’artista e competenza gli avevano consentito di raccogliere decine di pezzi dell’area sub-sahariana, ma ognuno di questi strettamente connesso con il luogo d’origine che gli conferiva patina e sacralità, lontano dalle vetrine luminose dei salotti bon ton. Gli innumerevoli soggetti della sua produzione, sono la decantazione di un universo genuino, furbo e allegro. Ecco che il teatro del mondo prende forma attraverso la stilizzazione simbolica dei tarocchi; le sue forme totemiche sono vitali ed energiche, intrise di una religiosità pagana. I gioielli sono sculture per il corpo, i collage e i pannelli un tripudio di colori e di forme irrequiete. L’ironia attraversa tutti i suoi lavori, l’arte è pur sempre riscatto e la sua irriverenza ci ricorda la leggerezza del vivere. Lo studio di Enrico rappresentava un’ esperienza unica; luogo eletto del fare è una stratificazione di oggetti creati, abbandonati, ripresi e riassemblati. Una scrittura feconda, in perenne divenire a testimoniare il racconto di una vita di ricerca che non avrà mai fine poiché è la ricerca il senso stesso di una vita spesa per l’arte. Lo studio di Enrico valeva quanto decine di mostre personali e collettive e come tutte le cose pregevoli vanno oggi scoperte, comprese e valorizzate. Il senso di un messaggio artistico profondo viene consegnato con l’umiltà di chi con coerenza ha sempre voluto custodire di persona il proprio fare. Una pratica artistica totale, con cui continuamente misurarsi per scacciare quelle zone oscure del nonsense che albergano latenti in ciascuno di noi. Breve nota biografica Enrico Prometti, Bergamo, 14/01/1945 - 06/11/2008 Dal 1959 al 1965 studi presso l’Accademia di belle arti “G. Carrara” di Bergamo. Mostre personali di pittura scultura e incisione in gallerie private e pubbliche a Bergamo, Milano, Lodi, Ferrara, Olbia. Mostre collettive in Italia e all’estero, tra cui due personali a New York nel 1996. Lunghi viaggi extra-europei in Indonesia, Sumatra, Papuasia e soprattutto in Africa Occidentale. (Collezione privata arte africana Enrico Prometti) 

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