Dalle scorie e dai processi industriali, la materia e le tecniche, delle sue prime opere, metalli, policarbonati, fusioni, assemblaggi, sculture re-plastic, installazioni, insoddisfazioni: in cerca di un linguaggio più vero, più forte, per esprimere in materia e plasmare l’invisibile, abbandona tutto, la carriera, le gallerie, il laboratorio, la pittura, e “scende” in Africa.
Assorbe lo spirito e la materia dell’arte africana, la maestria manuale, il legno riciclato, i ferri vecchi, si riconosce nella figura del fabbro-scultore e approda alla pietra: per 10 anni lavora solo la pietra, tutto il giorno, un lavoro senza sosta, continuo, “fabbrile”, spaccare, riciclare, rifare, quasi un mantra, crea e distruggi, crea e distruggi, un riciclo continuo di forma-materia e gesto-opera, produzione infinita, inarrestabile, un fiume in piena.
Dopo una giornata passata a lavorare sulla pietra, per distendersi (i nervi, le mani, l’anima), di sera, la pittura, fogli di 3 metri, e ancora, prima di andare a letto, il libro del momento, non il leggere un libro, ma il dipingere un libro.
La mattina, di nuovo, in laboratorio, a spaccare pietre e costruire visioni, “inquietanti sortilegi” come scrive Pino Viscusi “totem tecnologici, anatomie visionarie, gravide emozioni di un mondo alla deriva”.